Quali prove eseguite?
Dopo una fase iniziale di validazione attraverso misurazioni dimensionali e di durezza, le tipiche prove che sono eseguite sono quelle solite per i compositi, cioè impatto Charpy o Izod su provini senza intaglio, e trazione o flessione su barrette, anche con l’introduzione di difetti artificiali. Questo si accompagna con la caratterizzazione fisico-chimica per misurare il modo di degradazione termica e d’invecchiamento e per verificare che non ci sia sviluppo di sostanze nocive dagli scarti e con la microscopia elettronica per studiare la morfologia e le superfici di frattura.
Come spiegherebbe i test a un non “addetto ai lavori”?
Si parte dal confronto col materiale tal quale, senza scarti al suo interno. E si vede quale quantità di scarti è ragionevole introdurre senza ridurne le proprietà complessive. Si cerca di puntare ad utilizzare la maggior quantità possibile di scarti. Ci sono molti fattori che influenzano questa possibilità, tra cui sono molto importanti il grado di trattamento (meccanico ed eventualmente chimico) degli scarti, ed il processo di produzione impiegato. Entrambi questi aspetti devono essere “tarati” sull’idea di essere sostenibili, quindi a parità di risultati devono consumare la minor quantità di energia, di materiali, di prodotti chimici e di acqua possibile.
Perché utilizzare scarti produttivi nella realizzazione dei compositi?
Il problema degli scarti esiste e le aziende ci chiedono sempre di più di trovare degli utilizzi alternativi per qualcosa che non sanno come smaltire. Alcuni materiali come metallo e vetro possono essere riciclati, più complesso invece riciclare alcuni tipi di plastiche, come le termoindurenti. La sfida è trovare delle soluzioni che rendano riutilizzabili questi materiali, evitando di trasformarli in rifiuti, almeno nell’immediato.
Per la ricerca condotta con Danilo Battistelli, ad esempio, è stata una piccola officina del territorio a fornire la polvere di ferro necessaria alla realizzazione del composito a base di amido termoplastico autoprodotto. Si trattava di uno scarto di produzione che per l’azienda era costoso eliminare.
Il riutilizzo degli scarti industriali comporta delle criticità?
Partire da materiali di scarto nella produzione di nuovi materiali significa a livello di prove meccaniche e di validazione dei materiali tenere conto di alcuni aspetti: la variabilità delle proprietà dei materiali, il ritorno della presenza dei vuoti, la degradazione termica, i materiali poi non sono “puliti” e spesso è necessario trattarli prima del riutilizzo, serve poi conoscere il più possibile la filiera produttiva e se possibile utilizzare materiali locali.
Parliamo di fibre naturali e della “svolta bio”
Negli ultimi anni si è cominciato ad utilizzare le fibre naturali (canapa e bambù ad esempio) nella produzione dei compositi. Si tratta di materiali di rinforzo relativamente nuovi per i compositi, con caratteristiche molto diverse da quelli utilizzati tradizionalmente (come fibre di vetro, carbonio e kevlar).
Vanno infatti considerati alcuni aspetti: la variabilità delle specie, il fatto che le fibre di questi materiali non sono cilindriche, per cui i tessuti che si ottengono da questi materiali presentano difetti e fibrillazioni e spesso le fibre sono molto corte, specialmente se provengono dagli scarti.
Nuovi materiali da caratterizzare e testare con le macchine di prova
L’ambito della ricerca dei materiali è radicalmente cambiato negli ultimi anni. Fino a 30 anni fa non ci preoccupavamo del fine vita dei materiali. Da un punto di vista della caratterizzazione sia per i compositi da fibre naturali sia per quelli realizzati con gli scarti si aprono un’infinità di necessità e prospettive.
Facciamo questi studi per cercare di creare una consapevolezza e degli incentivi per le buone pratiche. Ho un’idea etica di questo lavoro. L’obiettivo delle ricerche è cercare di fornire alternative ai materiali già presenti sul mercato e pensare delle soluzioni per un loro reimpiego a fine vita che sia sostenibile a livello ambientale ed economico.